Vulgata d’amore

Quella di Fortuna non può essere definita riduttivamente poesia in vernacolo, in questo caso partenopeo, anche se abbonda, ne è l’architrave, la magmatica e umorale onomatopea di questo lessico unico, “arravugliato .. sfasulando”, e nemmeno aulica per le ricorrenti citazioni in latino, che poi citazioni non sono ma incastonate nel verbo parlato. Viene da pensare ad una sorta di gramelot, ovvero quel misto di fonemi che la gente umile, sottomessa, di sempre è stata costretta a maneggiare, ritorcendoli come emigrati non tanto la lingua o le lingue di accoglienza, ma il misto di slangs portavoce delle cose da dire, quelle vere, irrinunciabili, ineludibili.
Il rimaneggiamento di Fortuna è però di classe, inappuntabile, preciso nei riferimenti e nel senso, come chi vuol mostrare che l’imbonimento della lingua del potere, volta per volta, è stato analizzato nel dettaglio per conoscenza delle armi del nemico, del suo codice, della sua orripilante tracotanza, “Mine, bombe.. anticarro, missili, bazooka, mitra, miccia.. spoletta.. di quanta consorteria di voci triviali ha bisogno la guerra?”. Un vocabolario conosciuto, sondato, come il nemico spesso non sa fare, non sa inquadrare, mirare, la sua vera spina nel fianco, “tremmo comme strega rognosa, appresso a tanta ammuina, e allora io mi voglio strazzià, strappandomi diente e capille, co’ fegato niro ‘e rapille”. Apparentemente il nemico esulta di fronte al suicidio delle idee di rivalsa, di rivoluzione, ignorante e ignorando che è proprio nella energia che l’anima nobile introietta, incapace ad assistere a tanto oltraggio, menomata a lenire siffatto dolore, il tallone d’achille dell’abominio, della tracotanza, “Fino al cuorecupo rimbomba l’in-civiltà, nei vicoli abbandonati, scozzano fame e lacrime dai piedi scalzi”. E’ questo la poesia, altrimenti il grido è vano, e autoreferenziato. Bisogna muovere le viscere, indipendentemente dalla probabilità di potervi abbattere il nemico, mettere in circolo energia, sempre, comunque, “Voglio un’ora per ancora una volta assunare, delle vele che si stregnene ‘o puorto .. delle vocche rorate dai baci, dei ventri che abbagnano orgasmi, dei papagni orgogliosi che nascosero, la furia degli amplessi, allora che le scummesse del cuore, canuscettero l’età dell’oro, l’ecumenico bacio fra terra e criature..” . Le scummesse del cuore. E’ qui la poesia, ricordare alla morte che non è la sola ad azzerare l’origine, e che non è neanche necessario che qualcuno lo sappia, ma che qualcuno lo senta. “In un lampo si struzziò Raggione, annichilì il glossario dell’Altrui, roussoviani pampini di natura, s’arravugliarono all’interesse e sfasulando in vaniloquio .. visuarono le abbuggìe e gli abusi, l’assuefazione all’iniquo .. assurgere al potere et corrumpere, il patto comune, in somnium et insanguinata pace..”
Fortuna docet, giungere alla determinazione del Male non basta, la poesia svilisce nella semplice istantanea, occorre sì percorrere come Bellerofonte il campo Aleio, ma oltre al maiora delle idee straziate, comporre il canto, prendere per mano la Ragione e condurla all’incanto, “..in lotta con l’ignoto, vocche sempre pronte a canoscere, melograni sgranati, lengua che trase e jesce..”. Quindi la poesia di Fortuna si distacca, reseca, paradossalmente dai fronti contrapposti, dall’individuazione, constatazione, fatale al verso, e così facendo sprigiona l’eclettismo del vivere che non è solo linguaggio al riuso, equo e solidale, ma epos, quello stesso che malamente duchi e marchesi hanno appiccicato alla loro velleità di bonaria fratellanza culturale, mostrandone in tal modo la vera cifra, facendosi “sciamano nello scurìo, aprendosi a un sorriso, i monconi infantili delle mine antiuomo”, rendendo semplice e fonica l’impresa assurda di porre l’uomo di fronte alla sua nullità.
L’uomo. Ma anche la donna. “Il corpo delle donne, allisciato con carta a smeriglio, assaturato, svuotato, stinnicchiato.. addimostra ipsofacto il funerale dell’epoca, certe volte da scranni legulei appizzicati ‘ncielo”. Questo dimostra che Fortuna è donna dentro, trasversale per l’io diviso che ricompone nelle costellazioni dell’avvenire, quel passato dell’essere umano che ha fatto a pezzi la Storia. Ora è, qui è, non sui libri. E guardatevi bene, eroi d’ignominia, perché questa risata, vi seppellirà.
Il corpus della poetica di Fortuna non è politico, ma enfatico linfatico, ubiquità del verso, che rende imprendibili e all’occorrenza nocivi per l’ingiusto. E’ la maestria del codex srotolato, mostrato e restituito al mittente perché ormai assolto. “Fuit verbum olim. Una sola parola nei tempi dicunt scripta, d’inchiostro incancellabile”. Il resto è goduria, “treglie, tremmole, trotte e tunne .. purpe, secce e calamare ..vongole, cocciole e patelle”. Non è un caso che la tradizione popolare, da cui derivano le streghe, ha posto i veri confini della conoscenza, il limite d’abbrivio verso forme superiori, che dall’apparente melma stanano la sostanza, guidano all’ineffabile e porterebbero alla vittoria se questa non fosse la giusta allitterazione del perdente. La verità è. Punto. Puoi anche uccidermi, non è questa la svolta, avrò sempre di più la parola semplice, l’unica, “tra blindati troppo blindati, per contenere davvero la pace, scianca passi inediti e sorrisi, il futuro della gioventù dimezzata”.
Annientata, Fortuna, annientata.