Fra i libri che da anni ormai ho sul tavolo e che non riesco a leggere, c’è questo Diario di minima quiete. Alla prima lettura l’ho trovato ostico e quasi scostante, probabilmente perché non sono più abituato a leggere questo tipo di linguaggio e soprattutto (ma questo è un fatto personale) trovo fastidiosa questa moda garzantiana di anteporre ad ogni prima parola di un verso la lettera maiuscola che rende ancora più difficili ed ermetici quei testi che usano una lingua di per sé già complicata da arcaismi, da costruzioni sintattiche particolari se non prese tout court dal latino classico, da omissioni di particelle come le preposizioni semplici e articolate, gli articoli, ecc. La lingua, insomma, che ho sempre definito come “letteraria” nel senso di alta-a-tutti-i-costi. Per chiudere l’argomento con una battuta o una facile ironia: c’è una funzione in Word che evita l’inconveniente della correzione automatica, un giorno o l’altro ci scriverò un piccolo trattato, magari illustrato, così farò un servizio a questi scrittori.
L’autrice proviene dagli studi classici (è laureata in lettere, e lo si vede) e questa sua raccolta ha tutta l’aria di essere una specie di rivolta avanguardista verso la scrittura minimalista che caratterizza la maggior parte della ricerca poetica contemporanea. Il verso è dunque molto attentamente costruito, abbondano le composizioni a struttura chiusa come il sonetto, l’ottava, la quartina – c’è però il ripudio della rima, che qua e là occhieggia ma non sembra cercata di proposito, e questa mi sembra una cosa saggia a tutto vantaggio della libertà semantica. Abbondano i lemmi desueti (per esemplificare, nella prima poesia troviamo: arrovesciata, ingrommate, rabattarsi, infratelli, ignuda) che ovviamente ognuno è libero di usare (peraltro in alcuni casi, come ad esempio nel verso “da terrazze ingrommati di brina”, il desueto coincide con l’esatto: credo che questa sia proprio la parola che ci voleva, non così in altri casi, come in “Calma nicchia di vento mi figuro di fuori”, dove quell’ungarettiano “mi figuro di fuori” ha un che di manierato.
Il filo conduttore della raccolta, annunciato senza esitazioni nella prima poesia, è appunto il fastidio che l’autrice prova per la poesia dei “musicanti / della rima baciata”, i “benpensanti”, “coloro che si adornano di strati e mantelli / anime troppo leziose a rabattarsi / di sangue e di fango”: la poesia minimalista, ci par di capire, la poesia che a parere dell’autrice è decaduta, la poesia senza contenuto, quella non impegnata a proporre una visione del mondo, che non si preoccupa di parlare all’uomo ma parla solo a se stessa.
A farla breve, la poesia di Della Porta ha tutto: carattere, musicalità (da vendere, a volte persino carducciana), contenuti, eleganza, cultura, una certa maestria nell’uso del linguaggio, tutto, tant’è che persino il cattivissimo Linguaglossa ne parla bene e con molta competenza nella sua acuta introduzione. Perché allora non mi prende? Qui purtroppo è l’estetica, che è sempre soggettiva, a causare la differenza.
Trovo che ci siano due punti di personale dissenso verso questa scrittura: il primo è che per varie ragioni (non ultima la fatica nel leggere un linguaggio che viene da altri tempi – e non ne vedo la ragione) questa lingua non riesce a scaldarmi, non mi fa vibrare qualcosa dentro, la sento distaccata, cerebrale, in certi passaggi vatica e perentoria. La seconda ragione è che anche in questa autrice non si esce dal barocco (non tanto letterario quanto concettuale) e anzi c’è la proposta di ritorno a un barocco ancora più radicale e più pesante di quello del ‘900, che in qualche modo cercava di nascondere con mille trucchi questa sua figliolanza. Trovo insomma che sia fallita la spinta avanguardistica che anche Linguaglossa avverte nella sua presentazione.
Ciò detto, perché se si fa una critica bisogna dire anche i punti di dissenso (almeno quello che non si può tacere per essere fedeli a se stessi) e non soltanto quelli di consenso, bisogna riconoscere anche i meriti di questo lavoro. Il primo è senza dubbio quello di tentare (almeno qualcuno ha il coraggio di farlo!) una via diversa per la scrittura poetica che torni alla tradizione. Non importa, in questo caso, se poi lo sviluppo non ci soddisfa: quello che conta è l’aver capito e proporre con forza l’ipotesi che per andare avanti in qualche modo bisogna tornare indietro e riflettere, tentare. Il secondo punto di apprezzamento è la cura del verso e insieme del linguaggio. Nonostante la vena sperimentalista infatti, il verso è molto curato, fin troppo a volte (se si può ravvisare un “troppo” laddove la sonorità del verso sembra essere sopra le righe, volare alto anche dove non servirebbe, ecc. – ma qui siamo di nuovo nel terreno insidioso del soggettivo), il linguaggio è attentamente soppesato, analizzato con cura, con rispetto. Ci sono dunque tante cose da imparare da questa scrittura che vuole (e ci riesce) essere una provocazione e, come tutte le pro-vocazioni chiama a una risposta e una attenta considerazione per i suoi limiti ma anche per gli indubbi pregi.