C’è un tipo di poesia lavica e infuocata, che parte dagli anfratti dell’anima, si immette per dedali di viuzze, rallenta, esplode, come scossa dal baricentro di un metaforico sisma. E alla fine emerge alle plaghe aeree della luce. Tale è la poesia di Fortuna Della Porta, profondamente magmatica, vulcanica, implosiva, una poesia che si articola attraverso una scrittura della liminarità e dell’apocalisse. Tre concetti che saranno il leit motiv del mio intervento.
La scrittura della dissonanza. Partiamo dal primo concetto e diciamo subito, innanzitutto, che l’opera di Della Porta “Rosso di sera” e “Diario di minima quiete” sono meta-poesia, cioè una poesia sul ruolo e sul senso della poesia, un interrogare la poesia su come la poesia stessa a sua volta si interroghi sulle grandi questioni dell’esistenza. “Scrittura” è una delle parole chiave delle due raccolte: parola nobile e terribile, che significava per gli Indoeuropei “graffiare”, incidere.E, infatti, la poesia di Fortuna Della Porta si incide a lettere di fuoco nell’anima di chi scrive e di chi legge ( “Poesia, ti inciderò ignuda e violenta” in “Qui i tizzi del crepuscolo”). “Non sarò mai poeta/ -scrive in apertura di “Rosso di sera” – quelli che conosco/ hanno nodi di fuoco/intorno al cuore/ esalano armonia/hanno i sensi incantati/del fanciullo”. Lei no, non è così; e la sua scrittura è “dissonante e brutale”, dunque – aggiungiamo noi- non è dinamica, ma eccentrica, anomala, ex lege: è una nave che va con la sua chiglia nella tempesta dell’esistere.
Fortuna Della Porta insegue la sirena della poesia, mostruosa eppur ammaliante, sperando di agguantare significati, simboli, metafore.
“Acciuffo parole” lei dice: per ritagliarle e dare loro un senso sulle sagome del non senso. La scommessa è, dunque, disegnare parole sulla pagina vuota e riempirla di colori: il rosso della passione, il verde della speranza, il nero della melanconia. “Colori ” e, dunque, “vedere”: la poesia di Fortuna Della Porta è visionaria nel senso dantesco e leopardiano del termine (“idillio” vuol dire proprio “visione”). E, in questo vedere, i suoi sensi – come capita alle mistiche- sono potenziati: la luce che ella esalta in “Battesimo la luce che canta” è vista da quello che lei chiama il suo “terzo occhio”. Spesso – diciamolo – non c’è bisogno di un mondo nuovo, ma di occhi nuovi per guardare il mondo.
La liminarità tra il Nulla e il Tutto. E il ‘vedere’ di Della Porta è il trans-figurare la realtà e sottolineo il prefisso per indicare un ‘passaggio’ oltre un limite, un confine, una sogliaper lei esiste un limite oggettivo (Hai sussurrato il mio nome/al di qua della linea d’ombra’) ed è un limite soggettivo 8Offro all’infinitp/il limite della mia imperfezione).
E il limite per eccellenza è quello tra il nulla e il tutto: Mi siedo in questo limite/ e mi riconosco, scrive nella medesima lirica e grazie a questo limite ‘ F.D.L. afferma il coraggio di ‘ex-sistere’ dal Nulla ( ‘Ho penato due vite/prima di osare che sono’). Solo, infatti chi ha il coraggio di guardare il meduseo Nulla può comprendere che esiste il Tutto, solo chi guarda nella voragine infera può sapere che esiste una voragine ‘altra’ e speculare: quella dell’infinito superiore (‘Se non fossi stata il Nulla / apparterrei alle Origini/, come infinito)
L’infinito di una religione non pacata né olimpica, ma ctonia, sotterranea luminosa. Il suo dio sospeso nei suoi silenzi, di fronte al caso che inventa le sue tragiche variabili, vede il baratro del Nulla, che egli vuole popolare di creature a loro volta creatrici:’Il mio dio, ella scrive, si è profuso in rugiada / affinché un pittore provasse/ anche lui ad inventare un fiore’. Un deus absconditus, eppur presente nelle sue epifanie e nelle sue ierofanie (il Sole, l’Acqua e la roccia eterna del Monte, tre simboli del profano che rappresentano il Sacro).
L’Apocalisse come rivelazione e ri-velazione. In tal modo, la realtà superiore si rivela. La ‘rivelazione’ è indicata dalla tremenda parola ‘Apocalisse’ (da apocalypto=io rivelo): ‘la mia apocalisse è scontata ‘ scive Della Porta. La sua -abbiamo ora scoperto anche questo- è una poesia iniziatica, in quanto passa da ciò che è occulto (le lucreziane ‘occultae res ‘ dell’epigrafe) a ciò che è chiaro, andando oltre il velame della Storia, una storia che -dice F.D.P.- per riprodursi si camuffa e deve essere demistificata nelle sue menzogne e nei suoi errori (‘siamo tutti in errore’, in ‘Diario’, pag,25), una storia attraversata dalla Morte (‘Oggi la morte / abbandona i campi elisi/ e s’inoltra nella strada…./ Al suo passaggio il mondo/ si ferma a guardare’, in ‘Rosso di sera’, pag.16.
La rivelazione è conoscenza dell’orrore che permea le ossa della realtà (Appartengo al mondo/ di cui incontro la paura e la follia) e trovare la parola scavata nell’abisso (l’epigrafe di J. Rudel recita : Non sa trovar versi chi non usa parole, quelle rivelatrici).
Ma ‘rivelare’ significa anche ‘ri-velare’ , cioè ‘rimettere il velo’: ‘Non voglio èpiù vedere/ mi rifiuto/. Si vive bene /dentro un quadro di Chagal/ ci posso anche morire/ se mi pre, dove però il morire è ‘la morte iniziatica, è la morte all’errore’ , la ‘morte al male’, insomma morire per vivere, per rinascere a una nuova vita, frutto di un a più profonda, più intima, più autentica esistenza.
E, proprio sorretta da questa tenera forza, la poetesa ci dischiude un camminamento, impervio come un fiordo, ma luminoso come un sentiero innevato, nel corso del quale apprendiamo che la parola, la scrittura, la preghiera, il grido, il disperato canto d’amor ci sono compagni in questa tragica e splendida avventura che è la vita.