Ho camminato molto tra i sentimenti,/ i miei e quelli degli altri,/ ed è rimasto sempre spazio tra loro /per far passare l’ampio tempo. (Sono passata, Kiki Dimulà in «L’adolescenza dell’oblio»).

‘Poesia’ è il vocabolo che apre Diario di minima quiete, raccolta di trenta poesie di Fortuna Della Porta e ‘qui’ è l’avverbio che la conclude. Lasciando scorrere lo sguardo sui titoli dei componimenti, si nota una caratteristica ricorrente: essi sono per lo più introdotti da articoli determinativi o dallo stesso avverbio che chiude l’intera operazione. Il ‘gioco’ linguistico suggerisce un intenso labor limae, una costruzione dosata e attenta, volutamente non comune perché fondata parallelamente sia sulla ricerca del sinonimo, sia sulla creazione dell’immagine spesso inconsueta. La centralità dell’esperienza dell’io non impedisce l’adozione di un punto di vista oggettivo: l’idea è quella di creare un equilibrio anche estetico oltre, naturalmente, ad indagare l’universalità del paradigma poetico come esperienza umana.
Il viaggio di Fortuna Della Porta è un percorso attraverso le radici della poiesis: un cammino guidato dalla poesia «Nuda», da incidere «ignuda e violenta», «altera come il giunco alla piena»; seminare versi è seguire il canto della vita, scoprirne gli effetti, sondarne le sfumature mettendosi in gioco e scoprendosi rassegnati a «vivere di vento».
Mista al gioco linguistico, al divertimento (e all’abilità) dell’autrice, c’è la verità di chi scrive: il punto di vista si espande facendosi forza sulla propria singolarità, sulla consapevolezza che se gli uomini non sono portatori di una verità assoluta sono comunque portatori di una propria verità che la poesia, come strumento, ha il compito di portare alla luce.
Per raccontarsi e raccontare l’esperienza umana, Della Porta usa «forbici a doppia lama»: «acciuffa le parole», si pone in punta di piedi sulla pagina quasi per osservare un percorso da una postazione incontaminata, sulla soglia di una nuova scoperta da accarezzare, da fare propria per poterla elaborare; le parole «crepitano tra le mani», le immagini che esse si portano dietro prendono forma, delimitate da suoni, portatrici di vita, dei suoi frammenti afferrabili o meno.
Si percepisce un senso di attesa, un’incolmabile necessità di raccogliere l’esistenza nelle sue svariate manifestazioni per convogliare l’energia prodotta (e, soprattutto, percepita) sulla pagina bianca: al lettore non resta che partecipare al movimento dei fiori e delle foglie, all’oscillazione cromatica dei chiaroscuri stagionali, all’«angoscia della metafora» di un appuntamento atteso eppure ancora incerto.
E’ evidente e- talora sublimata- una sorta di fusione tra passato e presente: l’adolescenza di un «bacio fragile e frugale trepido e rimpianto» scivolata in prossimità dell’atto adulto di «strapazzare versi e alzare la posta».
Il poetare non è costituito di rime, (a cui l’autrice preferisce morbide assonanze, mai troppo insistite), né di similitudini o di facili enjambément: oserei dire che ella preferisce azzardare rapide metafore, oniriche talora, «a ranghi serrati» o, per i lettori più coraggiosi, a vele spiegate, fingendo che la scrittura avvenga quasi «per dispetto».
Reminiscenze di Ezra Pound e di Eliot, nonché del Dante dell’Inferno, allusioni frequenti alla letteratura contemporanea (penso a Zanzotto soprattutto, ma un certo ‘giocare’ senza falsi pudori mi ricorda pure Quenau, anche se in una diversa prospettiva), fanno di questa breve raccolta realmente un diario di immagini e di situazioni, una fotografia personale,  come un fiore che protende i petali verso l’esterno per mostrarsi alla luce del sole.
L’urgenza alla vita, nonostante gli spigoli, l’urgenza al tempo, malgrado la sua tirannia, lasciano sulle palpebre  l’ebbrezza di una corsa giovanile verso l’essenza delle cose, «Mille respiri a scalare la groppa», «la mia spugna che sboccia d’azalea», la curiosità insomma di scoprire la realtà, anche divorandola.
Lettura interessante, femminile per una certa capacità di dosare la parola e di porla, maliziosamente oserei, oltre la consueta ‘architettura’ del verso poetico: abbiamo davanti un’operazione che richiede vivace partecipazione da parte del lettore, nella fusione continua fra immagine vissuta e pensiero.
Un viaggio a piedi nudi e a cuore aperto verso le stagioni della mente e della vita, in compagnia dei sensi e, soprattutto, del senso delle cose.