Materiale vulcanico in sembianza di stelle e di farfalle che addensino una notte di pace:

tale il tono della plaquette in questione,  42 pagine di poesia densa,  concentrata,   struttura moderna in cui la parola è quasi tutto.
Già il titolo prevede un significato di portata duplice.  La quiete è quanto mai precaria e i dettagli delle cose,  minimali, le cose occulte, materiale di mistero,  ingigantiscono di ombre.
Parole a rischio,  niente di consolatorio, niente di rassicurante, in questa voce (..La mia voce/….mutila..), a celebrazione dell’ I0.  E tace ogni altro fiato.
Canto il me.  Stono l’atletica del me
L’energia originaria.  Le mie orecchie
Otturate, io nazione del male,
Me male tara e vento sono muta…
La voce poetante , fissa al suo pensarsi grido, espone verità coperte di velo.
I sottotitoli sui testi, già versi in sé compiuti, righi alti del pentagramma vocale, alitano di solida corteccia, come d’albero, che respira senza sembrarlo ( qui l’iperuranio scandaglio di rovere).
 Se dice il poeta che si fa lente
Misura del gorgo all’etra celeste
Mente
Per l’alfa e l’omega,  il Verbo è latente…
Per gran parte, ciò che a F.D.P. interessa è appunto lo scandaglio della parola, da spingere oltre, con energia,  in avanti, in profondità.
 Poesia ti rifarò dissonante e brutale
Arrovesciata su bacche di sterpi
Da terrazze ingommate di brina…
Tuttavia, quando  crediamo di esserci immersi fino al fondo degli abissi, e ritorniamo in superficie, la goccia d’acqua che resta sui polpastrelli impalliditi delle dita non assomiglia più al mare da cui proviene,  scrive con pertinenza  Maeterlinck.
Arde di terra un crepuscolo come legna al fuoco.
…Ti inciderò ignuda e violenta,
Altera come il giunco alla piena
Audace come la chiglia in tormenta
Che emerge con escoriazioni dal flutto
E’ l’oppressione del respiro che volge al freddo
Ma pure tra il furore e l’onore:…
qui i tizzi del crepuscolo (titolo)
Vocabolario sciorinato senza economia,  F.D.P. sferza il discorso con la frusta, lo fa saltare a suono di tromba.   Passione aperta,  risentimento sordo.  Più che al dire, è meglio adeguarsi al fare.
Acciuffo parole. Per essere essenza acciuffo parole
E uso forbici a doppia lama per ritagliarle sulle sagome.
Rabbercio la mia espirazione tra simili e contrari
Mi crepita tra le mani un neologismo o un’anticaglia
Burattinaio della moltitudine salvifica, soffice
Cultore di assonanze e traslati sul filo d’inchiostro
Delimitato da un suono…
E intanto nel suo agire prepara  la mensa,  distribuisce sul tavolo le margherite.  “Nil difficile volenti”. Ritaglia spazi di libertà fra prigionie quotidiane.
Dalla Libertà passo alla libertà
Ove impossibile il di e il da
E  per quanto scali la elle
Ambito da lacchè.
Ma se mi cadranno i capelli
La quotidiana decenza
Giuro che acquisto un tupé.
qui una guerra scoppia di gemme
Come si può vedere, il lessico è danzante. Si parla musicalmente, la battuta in levare.
E intanto
Giorni fuggono a vela dietro il vento,
Corni del dolore, pane impastato di ferro
Compendio del vortice eterno, marana ove urla
Dispendio di fiato,..
qui il tacere rimbomba
Come appare, e si è detto chiaramente, si azzardano parole insolite accanto a un ripescaggio di terminologia più antica, per un amore che si estende globale.  Tuttavia, non c’è elegia,  niente paesaggi risaputi.    “E non so affacciarmi al meriggiare”,  dice.
Piuttosto, paesaggi d’arte figurativa, visioni d’autore.
Da lingue morte, da lingue straniere occhieggiano, con conseguente sottopensiero scrittorio, giganti letterari,  Dante (“Pape Satàn…”), forse  John Donne (prese le dovute distanze)  per certi atteggiamenti di parola “sensuosa”,  Dylan Thomas (“And death shall have no dominion”) .
Si cerca oltre,  e dalla  tradizione,  qualcosa di forte e di diverso – l’alternativa a ciò che non si è avuto, o che non si è dato – che certo  esiste,  la parola perfetta,  più in là, all’orizzonte, uscendo allo scoperto, dal limite visionario che  “al logos mi avviticchia costante”.  Parola come luogo, per sostare, per trasferirsi,  ritrovarsi.
Così, con i suoi attrezzi,  forbice e martello,  coltello e cucchiaio –  gambe alla maratona – , F.D.P. può illuminare un quadretto di paese  in un tempo passato dove “il mare schiude il suo lume”:  un testo a tamburo che echeggia ritmi di Garcia Lorca.     Come  in fotogrammi,  un microcosmo di civiltà, memoria di appartenenza,  per certe inquadrature  riporta al  film di Battiato, “Perduto amor..”,  ed esprime quella  musica.
Come quando in terra di limoni
Cantavano il corredo le donne
Del bruciato deserto del sud
E i cani beccavano alla strada
Come quando a mela cotogna
O pannocchie si mangia nel sud
I ragazzi inseguivano il cerchio
E battevano le figurine del calcio
Precipitosamente abbruniti d’aprile
Negli scampoli del deserto del sud
Il sole si stanca sul mare del sud
L’arsura ha radici negli occhi del sud
E mulina la polvere nel deserto del sud
  Le donne cucivano e cantavano
Dietro le proprie sbarre nel deserto del sud
I denti di perla  gli occhi di pece
Cantavano l’amore le donne del sud
Nella ruggine succosa d’arancio
Nutrivano sogni le donne del sud
  Volano e imparano i mestieri
Come quando si scorcia la scuola
E lo specchio ti scantona nel riflesso del sud
Si leva il vento nelle piane del sud
Con petali e foglie e vite in ginocchio nel sud
  Come quando ieri alla fine del sud
  Come quando non piove nel deserto del sud
Come quando si copre di spine il deserto del sud
Come quando la fuga è preclusa dal deserto del sud.
Alla fine, quando tutto è stato posato,  quanto premeva,  in quiete,  bisogna riconoscersi nel volo, prima di sparire,  “stanco uccello crudelissimo, cuore di pietra”.

Le illustrazioni di Diana Arton,  che accompagnano la plaquette,  bene si sposano ai versi di F.D.P..  Nella duttilità del colore, Ombre – sensazioni di stati  d’animo inespressi – spiegano linee astratte a una chiusura del dire.