Vi è sempre una emozione, quando si avvicina una voce di poeta che per noi è nuova. Una emozione che diventa più profonda quando, leggendo a mano a mano, ci accorgiamo che non ci eravamo sbagliati e che, ancora una volta, una esperienza esistenziale si è fatta forma – quella forma – nel senso che quei contenuti se fossero espressi in un’altra forma sarebbero altra poesia – e forse apparterrebbero ad un’altra persona.Nel nostro caso, dunque, non vi è dubbio che le impressioni e le immagini, appartenenti a Fortuna Della Porta si trasformano in forma, diventano espressione poetica – una espressione poetica che, nel passaggio dalla prima raccolta (Rosso di sera) alla seconda (Diario di minima quiete) diventa sempre più concentrata, essenziale, disposta al «sacrificio di sé».
«La poesia – dice Thomas Stearns Eliot – è sacrificio di sé» ovvero di tutti quei contenuti (impressioni, stati d’animo, emozioni) che non sono in grado di mettersi al servizio della forma, cioè di trasporsi di trasfigurarsi in essa.
L’intuizione lirica della nostra poetessa, con sempre più ferma lucidità nel Diario, tende appunto a intus ire, ossia ad andare in profondità e, allo stesso tempo, anche gli strumenti retorici e stilistici si affinano sempre di più.
Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio work in progress, in cui gli scenari dell’infanzia e della giovinezza costituiscono – più e meglio dei luoghi della maturità – un pregnante mondo immaginario. In altre parole, quei primi scenari tendono a farsi altrettanti paesaggi interiori, nei quali la fantasia prende ad abitare con crescente dimestichezza, togliendo ad essi tutto il superfluo. Quella rete di riferimenti allotri, estranei, che permettono una comprensione anche immediata dei testi poetici, e quindi, per così dire, un facile accesso al «paesaggio interiore» del poeta, si fa sempre meno agevole. Si ha così un processo duplice e, allo stesso tempo, inverso, nel senso che, mentre il poeta si muove a suo agio nel proprio mondo interiore, che ha ormai un linguaggio funzionale ad esso, tanto più diventa ostico, quasi inaccessibile agli altri (anche alle persone più vicine e care). Quando avviene ciò – come è manifesto in Diario di minima quiete, tutto diventa più difficile, ma proprio perché il cd. vissuto è trasposto, trasfigurato in una misura più alta e pura.
La poesia, quando è veramente tale, impegna la personalità in una esperienza che è sempre più aspra e solitaria, in quanto il poeta, adoperando senza risparmio gli strumenti tecnici di cui dispone, sacrifica tutto se stesso alla FORMA della poesia.
Non è tanto strano osservare che ogni poeta autentico trova il suo Muzot, (ovvero il rifugio eremitico delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo di Rilke) e ciò avviene dovunque egli, senza subire l’influenza del luogo che lo ospita, possa assorbire tutto se stesso nel formare, figurare le istanze che veramente gli stanno a cuore. Come avviene a Della Porta che, in una incalzante sequenza di immagini del nostro Sud, compone un indimenticabile microcosmo, che, per economia di discorso, non si può citare per intero : «Come quando in terra di limoni / Cantavano il corredo le donne / Del bruciato deserto del sud / E i cani beccavano alla strada / Come quando a mela cotogna / O pannocchie si mangia nel sud / I ragazzi inseguivano il cerchio / E battevano le figurine del calcio / Precipitosamente abbruniti d’aprile / Negli scampoli del deserto del sud / Il sole si stanca sul mare del sud / L’arsura ha radici negli occhi del sud / E mulina la polvere nel deserto del sud / Le donne cucivano e cantavano / Dietro le proprie sbarre nel deserto del sud / I denti di perla gli occhi di pece / Cantavano l’amore le donne del sud / Nella ruggine succosa d’arancio / Nutrivano sogni le donne del sud […].La Della Porta «acciuffa le parole», che appartengono al proprio mondo fantastico, perché sa che non vi sono parole neutre, ma solo quelle a cui diamo un nostro spessore interiore, creativo: parole che sono state segnate da fatti della nostra vita, ma che ormai sono al di là di essi. E ciò perché la poesia si attua attraverso una continua negazione e trasposizione di cose e di vicende.
La Della Porta, però, non cade nell’errore di ritenere che prima dell’intuizione niente è determinato e che dopo di essa tuttoè determinato. La Della Porta, al contrario, sa che vi è ancora molto da fare e – con chiara indicazione di poetica – specifica che «usa forbici a doppia lama per ritagliare [le parole] sulle sagome», le quali peraltro non tutte si adattano. E a questo punto il poeta si fa poietès, artefice e, adoprandosi nella propria officina, «rabbercia la sua espirazione», ossia emette suoni e li aggiusta destreggiandosi «tra simili e contrari», mentre «gli crepita tra le mani un neologismo o un’anticaglia»; sì che il poeta sembra veramente «un burattinaio della moltitudine salvifica» – non «di una moltitudine salvifica», perché quella moltitudine è soltanto del poeta – e solo a lui chiede di salvarsi – e questi, coltivando «assonanze e traslati» traccia fili d’inchiostro su un foglio, i quali, simili alle note sulle righe di un pentagramma, producono suoni…
Il poeta, dunque, acciuffa a volo le parole, che gli vengono dall’ispirazione, mutuata dai propri ricordi, ma poi, lungi dal ritenere tutto determinato, lavorando nel suo laboratorio, compie, esplicita il testo, che ha avuto il suo incipit nella intuizione.Il titolo – Diario di minima quiete – in nessun modo deve far pensare a un approdo minimalista, a una scelta di poetica debole, che rifiuta di affrontare il rischio della «voragine della passione», sempre insidiosamente presente nello «spazio della vita», né tanto meno [deve far pensare] alla decisione di mettere tra parentesi i grandi problemi i quali – si accetti o non di prenderli in considerazione – sono per ognuno di noi basilari.
Nulla di tutto ciò si rileva nella poesia di Della Porta che, anche nella trasposizione poetica, non è persona che si tiri indietro; anzi sembra di poter dire che, pronta com’è a sopperire alla «debolezza del giunco» con la «tenacia» e alla chiarezza del cristallo con la durezza del diamante, prediliga la sfida avventurosa. «Non ti voglio saggio» – scrive in un testo, dedicato al figlio, in Rosso di sera – perché la saggezza disillude – e quindi rende inabili all’azione. «Ti voglio – continua indomita – curioso e stupíto / col cuore esploratore».
L’osmosi madre-figlio, derivante dall’essere stati «abitanti dello stesso corpo / e alimentati dallo stesso respiro», getta luce non solo in spe sul figlio ma anche (qui soprattutto per noi) sulla madre, per la quale momenti di minima quiete, simili a oasi di refrigerio, servono a riconquistare «sorriso» e «leggerezza», tanto necessari anche negli intervalli dell’agone poetico.
Fin dal primo testo del Diario la Della Porta mostra con tagliente nettezza le sue intenzioni: «Poesia ti rifarò dissonante e brutale […] Ti inciderò ignuda e violenta, Altera come il giunco alla piena / Audace come la chiglia in tormenta / Che emerge con escoriazioni dal flutto […] Ma pure tra il furore e l’onore […]».
Ma l’irreparabile iato che vi è tra arte e vita – tra cose e parole sembra per un attimo disorientare la nostra poetessa: «Io semino versi / Rassègnati a vivere di vento»), ma questo indugio (rassegnato) trova súbito un sontuoso riscatto: «Si vive bene dentroin un quadro di Chagall»!
Nel Diario di minima quiete, si manifesta in pieno la poetessa, che non solo ha vissuto con carattere e passione, ma che ha anche assimilato letture e libri. I pensieri – si sa – debbono a lungo purificarsi prima di farsi poesia. E ciò avviene anche a Della Porta, i cui pensieri sull’«iperuranio», metafora della dimensione eterna, sono il frutto di un lungo «scandaglio» nel «rovere» ossia in un legno duro e difficile. Non dunque la fede ma la ragione – che ha cercato dio in tanti libri – la guida per gli aspri sentieri della metafisica, da cui – può forse dirsi – è stata tentata ma non conquistata! Ma, come è abituale in lei, ad un tratto, via libri e filosofemi, perché è la poesia ad avere l’ultima parola: «se il poeta […] si fa lente / misura del gorgo all’etra celeste [abisso o cielo che sia ] / mente / per l’alfa e l’omega, il Verbo è latente». La parola dunque si nasconde, se deve esprimere il divino. Tuttavia, per Della Porta, «bisogna vedersela col silenzio di dio», forse perché quel silenzio non ci ha liberato (come si sperava) dall’insidia di altre parole in noi e fuori di noi!
I versi di Della Porta hanno il loro Grund in forme che rivelano un estro esaltato più che elegiaco, dionisiaco più che apollineo: «[…] Giacché la farandola mi si scapiglia / Nell’uggioso iterato formicolio esistenziale / E non so affacciarmi al meriggiare / L’ecoesistente belvedere intorno […] Sulla plancia colgo meglio Ulisse / Con la mia clessidra antitetica / e letale / I peripli mediterranei che visse / E il mare dell’esperienza […]». Intanto «Giorni fuggono a vela dietro il vento, / Corni del dolore, pane impastato di ferro / Compendio del vortice eterno, marana ove urla / Dispendio di fiato, la mia apocalisse è scontata […]. E, infine, al di là dell’apparente ordine «delle ferraglie del flutto-sterminio», «L’universo è scrollo di stelle collassate / E esplosioni di supernovae / Buco nero famelico di luce e materia / Che inghiotte in punta di spillo mentre / Asteroide precipita su una generazione o Atlantide».
Qui e altrove, le immagini hanno una forza originaria, prepotente, sfrenata – sicché la poesia vera si impone e le algide ragioni della letteratura tacciono.