La poesia di Fortuna Della Porta si muove in una topografia di rovine, esibendo un plurilinguaggio con l’abilità di un rhetoricoeur, improvvisando paronomasie e anafore, introducendo senso e determinando cortocircuiti tra suono e suono; mima il senso, un senso plausibile ed effimero, scommette sulla analogia e sulla paronomasia. Risparmia. Economizza i frustoli, i ritagli, i resti, gli scarti della vocabologia e dell’iconologia di un’intera cultura novecentesca. Gioca con paragrammi ed ipogrammi, con i ritorni e le partenze, non prova terrore del vuoto che si apre tra gli spezzoni, i frantumi, i lessemi, le sillabe e i fonemi. Ma che cos’è il vuoto? «das Ding», la Cosa, o la nostalgia della Cosa, non produce nella poesia di Della Porta alcuna nostalgia del Vuoto o del Pieno di una virtuale lingua delle origini. Avviene, anzi, il contrario: con le risorse di cui dispone, questa poesia produce, o almeno prova a produrre, senso. Le risorse linguistiche di cui si ciba sono i minerali già estratti e sperimentati; ma dopo le sperimentazioni, dopo le avanguardie, si può, coscienziosamente, rovistare nelle scorie, nelle sintassi ed anche nelle distassi combuste, nei resti dispari per utilizzarli nella “nuova” economia della composizione, che non sono più quelle dello spreco e dello sperpero, del boom di significati-significanti. Siamo alla melancholia di ogni avanguardia. Oggi può esistere soltanto una avanguardia “privata” sembra dirci questa poesia, un «mulinare di mari e di muri», perché «Le cose si stagliano a noi come pagine vuote» ed «anche gli amori si ossidano come una moneta non spesa», «Il mare è denso e scuro per ospitare i pesci». Non si tratta, dunque, di risalire ad un archetipo originario ma di collocarsi dentro le coordinate di una temporalità estraniantesi, di una geografia senza naufragi e senza mappe, tra un «porto sepolto» e un «mare nostrum». La poesia di Della Porta cerca allora di orientarsi fra gli smottamenti, i deragliamenti delle parole, le deviazioni accidentali del viaggio, le crepe del ritorno («Nessun ritorno è perfetto:/ forse anche laggiù ormai la terra è scabra», convinta com’è che è la condizione post-moderna che determina la mancanza di stile, e non il contrario. Con queste premesse, la poesia dellaportiana si incammina verso uno stile-nonstile come dato di partenza della propria procedura interrogante, quasi che un elogio del discorsivo sia il migliore antidoto alla follia imperante delle merci linguistiche. Qua e là tracimano, nel tessuto stilistico di questa poesia, lacerti della rammemorazione, della nostalgia ancora non acquietantesi: «getterò le arance rosse della tenacia»; «le guance del tramonto»; incisi cognitivi e gnomici: «Questo ho imparato dal mio tacere:/ le solitudini sono tutte ferme come il marmo/ e non si trova una frase a descrivere l’inesprimibile./ Non servono le sillabe, bastano/ gli emboli del cuore nella mia e nella tua sera/ gettandoci la rete come pescatori/ abdicati al silenzio come pesci». Dopo l’apparizione fulminea del Diario di minima quiete nel 2005 e del poemetto di circa mille versi apparso sul n. 28/29 di “Poiesis” del 2004 dal titolo Canto Primo e Io confesso del 2006, quest’ultima opera segna la conferma delle qualità letterarie di Fortuna Della Porta.