Che un libro di poesia sia costretto ogni volta a ricominciare da capo non è una novità. Ogni testo ha ansia di de-marcarsi dal precedente e da tutti i concorrenti, siamo nel bel mezzo di una rivalità non dichiarata tra tutti i libri concorrenti al concorso dell’oblio del contemporaneo; come dire, oggi il miglior modo per allontanarsi dalla ridda delle scritture «del corpo», «dell’anima», dell’«esperimento privato», del «quotidiano», dello «spirito» etc. è quello di scrivere in dialetto ma in un dialetto reinventato e ricordato, ripescato dall’oblio e cancellato, il dialetto campano parlato dai nonni e dai genitori nella casa di campagna della famiglia di Fortuna Della Porta. E così ogni libro di poesia ricomincia daccapo, azzera quanto fatto dal precedente e da tutti i precedenti (dei contemporanei) in una sorta di danza apotropaica di Saturno che ingoia i propri figli. Quest’ultimo di Della Porta ricomincia dalla «metafisica dello zero», ossia comincia là dove la Lingua maggiore ci lascia, ci riporta all’indietro, ricomincia dalla Lingua maggiore ridotta allo «zero». Mentre invece Gramaglie e Frattaglie (del 2011) ci riportava al Futuro con il suo impasto-mescidanza di parlari diversi ma pur sempre di impronta sperimentale, se pur è vero che invece quest’ultimo libro è invece di impronta «sentimentale», perché c’è esperimento là dove c’è Futuro e c’è rammemorazione dove c’è l’oblio del futuro. Così è anche in Fortuna Della Porta. «Capolavoro» sentimentale nel senso di lavoro ultimo che mira al lavoro terminale, alla stazione ultima, cioè «capolavoro» certamente nel senso di tentativo di fissare un’opera nei termini di un raggiungimento, d’una pienezza, ovvero d’un’esemplarità. Ma il fatto è che non ci può essere pienezza là dove c’è frammento e intermittenza, là dove già la lingua adottata è un idioma minoritario e sub-subalterno. C’è ancora la percezione del «coro» in questa composizioni, di una voce recitante che si indirizza alla platea; ma è un ricordo, soltanto un ricordo (sentimentale) perché subito sopraggiunge la voce monologante del ricordo che raddoppia e rimuove il «ricordo sentimentale». È la maledizione della adozione della lingua in dialetto dei nonni, un dialetto che ha bisogno di continue dialisi e trasfusioni di sangue per essere vivo, o meglio, quasi vivo, o meglio, quasi morto.