Critica della ragione impura
“Vicchiazza cresòmmel’ annizza, lu sciore della ventura è appassuto”, “Vecchiaia albicocca marcia, il fiore dell’avventura è sfiorito”. È l’incipit di questo lavoro di Fortuna Della Porta che va oltre la Poesia ma, opera iniziata già con “Gramaglie e frattaglie”, entra nel novero della rappresentazione panica del dire inteso come vivere e partecipare ai suoi eventi come una festa, talvolta amara e indigesta, ma festa, una tammurriata. Come lei stessa afferma in postfazione il gramelot fonetico con cui si esprime deriva da diversi dialetti, non solo il partenopeo, differenti idiomi che portano in sé il sapore originario della mimica verbale più che del semplice comunicare. La lingua italiana prese le mosse proprio da quel koinè dialectos che rappresentava la summa delle mille espressioni nell’evidenza del loro aspetto comune, koinè. Fortuna, pur restando nell’ambito campano, svolge un’azione di collettivizzazione del linguaggio, sia in termini espressivi che contenutistici.
Le antiche presenze, talora nomate streghe, tal altra patriarchi o santoni popolari, hanno sempre ricoperto il ruolo sciamanico di ponte fra il vivere e la sua impossibilità, rendendo affabulabile, quindi assimilabile, anche le verità più scomode, “E peggio e pejo se jettano ‘nguerra, pe s’arrubbà nu parmo de terra, ‘ntussecanno mare e pastura, ca pure lu cielo se ne appremura” “E peggio ancora si gettano in guerra, per rubarsi un palmo di terra, avvelenando mare e cibo, che pure il cielo se ne preoccupa”. Quindi, come è a tutte le latitudini, la sceneggiata, la narrazione intese come esorcismo del male stesso e al contempo codice quasi segreto, esclusivo del comunicare, mettere in guardia. Si assurge in tal modo ad una carboneria semantica simile al passaggio in punto di morte delle consegne rituali, non solo perché nessuno ascoltasse, ma a che il tempo stesso e la vita e la morte ignorassero il soffrire che c’è dietro l’abominio endemico dell’essere umano. “Me porte into ‘a generazione. Ava e sullivava, ca ciucciuliav’ ‘a lli chiante, comme m’hanno cuntato” “Mi porto dentro la generazione. Nonna e la bisnonna che parlottavano alle piante, come mi hanno raccontato”.
Quindi nascita del linguaggio come difesa, è uno dei motivi storici del codice, e di Poesia come mimesi, ovvero orpello delle forme non per esaltare pericolosamente ma quasi nascondere, cautelare l’empito di rivolta perchè la Poesia è, Rivoluzione. “Chiove e ‘nchiana , ‘ncopp’a la terra, nu frigido nivuro, comme’a lu vierno. Servisse ‘na scala .. pe gghì a cercà, sole luquente, e scansà ‘o sconcio, de li cappe a lu viento” “Piove e cade sopra la terra, un freddo nero come l’inverno. Servirebbe una scala, per andare a cercare sole lucente, e scansare lo sconcio delle menti nel vento”. Lo sconcio delle menti. E così l’Amore, “Mela avvelenosa ‘a vocca toja, m’arrasse da sempe, a scurcuglià l’ammore” “Mela avvelenata la tua bocca, mi impedisce da sempre di indagare l’amore”. E la Natura: “Da ‘ndrete a li muntagne scennìa a freschezza, de la primma matina, l’acqua de lu mare se vuculiava quieta” “Da dietro le montagne scendeva la frescura, della prima mattina, l’acqua del mare si cullava quieta”.
Poesia come preservazione del lume dell’abbraccio popolare, del senso cosmico della ragione svuotata del suo artificio di morte e ricondotta a palpito di verità nascoste che rischiarano l’aria, mettono appetito di cibo e di vita ma non dimenticano l’origine di tutte le cose: “La spacienza fatta rulore, tu sempe venive pe me mettere ‘mmocca, insieme alla serpa d’ ‘a lingua toja.. na parola stuoteca, na ‘nfruata” “L’impazienza fatta dolore, tu sempre venivi per mettermi in bocca, insieme alla serpe della lingua tua,. .. una parola stonata, un rimprovero”.
Ecco la metafisica dello zero, questo titolo così apparentemente avulso dalla epica dei sentimenti popolari eppure così emblematico: non ci può essere metafisica nel nulla, in uno zero ma, aggiungerebbe la “sullivava”, la bisnonna: in quello che “sembra” uno zero.