Penitenza, destrudo, pellegrinaggio. Verso dove?
I versi di Fortuna Della Porta mi trasmettono una costante sensazione-certezza. Sarebbe forse più opportuno dire: mi attivano una forza davvero singolare che in certa misura mi preoccupa, mi costringe a chiedermi se quel baluginare di energia, accresciuta dall’efficace pregnanza di sintagmi popolari -con l’immediatezza dell’invettiva orale- erano preventivamente decantati in me. Quindi: se li riconosco come pungolo elettrico, forte leva all’azione. (Già questo sarebbe più che sufficiente a garantire il suo brillante raggiungimento del goal, dell’istigazione alla denuncia, dell’urlo passa parola che è stato opportunamente ricevuto).
Una condizione di esuberante magnetismo oscillante, bipolare oltre che nell’endiadi del titolo, anche nell’ammuina infernale dell’esistenza, nell’intollerabile scandalo della diossina nell’uovo sacro. Stancante, logorante, ma ben lungi dal prevalere, sottomettere, dal placare.
Semmai in questi versi rimane l’interrogarsi sul complesso non analizzabile del profondo, sull’inconscio che ci governa anche a nostra insaputa, (come del resto è inespungibile caratteristica di ogni testo poetico, refrattario e impenetrabile alle analisi più callide e sottili): stiamo forse cadendo verso un esito, finto tale, ineluttabile? Il mancamento, la “perdita”, il galleggiamento nel freddo vuoto astrale finiranno col sopraffarci-assiderarci nonostante tutte le nostre ribelli energie?
Qui il “bradisisma campano” risulta affine di sofisticate sabbie mobili, di quelle angosce che apparentano il “femminile”, il “genere”, tutt’altro che debole, anzi ferocemente resistente, di gridata coscienza che così non è vita, una volta cacciati dall’Eden dopo che “le scummesse del cuore canuscettero l’età dell’oro”.
Gramaglie, Frattaglie: le minime pubblicazioni, quelle che poi finiranno col circolare soltanto tra i cari addetti, tra gli amici, felicemente rese utopiche, perdute alfine nei cassetti, nei garage, escluse per caso dalle autoantologie come messaggio erroneamente considerato laterale, “scordato”, rivelano, bloccati nella sincronia proprio gli aspetti più remoti, tradiscono l’inconfessabile, alludono a ferite che offendono il nervo scoperto, la carne viva.
Una tale testimonianza non può che tradirsi in un delizioso libriccino di alto peso specifico, una plaquette d’Autore (e di Editore). La quale di solito promette, nella sua apparente esiguità, ulteriore sviluppo, diritto alla mutazione, invocata evoluzione, susseguente teatro con scenari anche differenti se non opposti, ciclici, pendolari, isocroni, non più arcimboldeschi nella giostra istregonesca, e per nulla consolatori nell’affollata sagra fitta di molti impermeabili destini, dove roride leccornie estemporanee siano essiccate al vento magnetico, (magari nelle pause) sostituite dalle invidiate effimere frittelle, gioiose e indifferenti di chi ci passeggia appresso felice, sconosciuto.
Disperazione, eresia, coraggio, coniugato a smaliziata sapienza plurilinguistica che doma il verso senza togliere immediatezza e spontaneità all’invettiva della parole coniugata alla sperimentazione. Caratteristiche di poche poete. (Con tale autorevolezza e forza ne saprei citare al massimo altre due).
Perché nel lutto il poeta dice sempre di se, ma è famigliare di tutte le vittime, sia che sovrasti le vicende, sia che queste lo destrutturino, nonostante l’incanto di nuove roselle, che non sono per noi.