Libro che segna la maturità della poetessa di adozione romana, felice anche nel titolo, nelle immagini del tonfo e del sonno dei candidi volti di marmo della copertina che richiamano, per anamnesi, l’heideggeriano «oblio dell’essere» e il tramonto come trionfo (e caducità) del «mondo del si». Oltrepassare l’epoca della metafisica per Fortuna Della Porta non consiste nella celebrazione e nel rimpianto della fine dei fondamenti e le rovine del senso (come presso gli elegiaci), quanto nell’albergare in mezzo a queste rovine, questi frammenti (filamentosi) intesi quali occasioni per una liberazione della condizione umana libera dagli dèi e dalla imposizione delle strutture perentorie dell’essere («Gli dei sono fuggiti dal mondo /e nessuno insegue gli dei»). Adesso, è chiaro lo svolgimento: il discorso portato avanti dalla poetessa romana, fin dal Diario di minima quiete (LietoColle, 2005), passando per le stazioni intermedie di Io confesso (Lepisma, 2006) e Mulinare di mari e di muri (LietoColle, 2008) consisteva nel dare voce all’epicedio di un mondo di visibilia e di minuterie quotidiane per andare oltre il quotidiano e la cronaca del quotidiano («La mia maturità / -arduo dirla vecchiaia – / oramai disfatta / in un campo di stoppie / ha solo paletti per sostenere / ancora un giorno»), dare voce ai miti per andare oltre i miti (verso il nuovo quotidiano letto attraverso quei miti), è qui il momento più alto del libro, nelle poesie «Icaro», «Minotauro», «Cassandra», eppure in quella libera e metaironica affabulazione che risponde al titolo di «Principio», a mezzo tra discorso introduttorio e definitorio delle cose «prime» (una sorta di discorso intorno alle cose prime) del nostro universo, con tanto di diorama del Principio biblico e fantasmagoria delle cose «ultime» le quali, in fin dei conti, siamo il «noi» (il post-moderno) della contemporaneità. Il complesso discorso metaironico e conviviale di Fortuna Della Porta si snoda così in un piacevole «parlato» che si dirama in un delta linguistico attraverso le frattaglie e le minuterie, i risvolti della cronaca e i richiami al tempo mitico, il tutto emulsionato e agitato all’interno della clessidra della contemporaneità.
Due sono gli schemi possibili: 1) quello di chi attende che il «senso» si sveli, e allora la scrittura diventa il ricettacolo, la preparazione della rete entro la quale (la scrittura – quel senso) dovrà impigliarsi; 2) di chi invece considera la scrittura come un esperienziare le esperienze di ciò che è possibile esperire, lasciando al di fuori del proprio demanio il non esperibile (il wittgensteiniano non dicibile). La scrittura della poetessa romana procede così per contaminazione e commistione, immersione-emersione nelle (e dalle) faglie del «parlato», adottando ed ereditando di questo il calco mimetico, con tutto ciò che di irregolare e di transitorio ne consegue, il balzello che un tale procedere necessariamente comporta.