La poesia di Fortuna Della Porta trascina da subito il lettore in un “mulinare” di stati d’animo e sensazioni, in cui, però, non si fa fatica a ricomporre i tasselli, sparsi qua e là nelle liriche, del mosaico della sua “filosofia”, a cogliere lo smarrimento di fronte al non senso del divenire cosmico, l’amara ma virile accettazione del nostro faticoso “navigare” nel “nulla dei giorni” (Mare nostrum), solitari naufraghi nella tempesta della casualità, privi di sbocchi e di spiragli finalistici, sbattuti contro gli scogli del disincanto, del rimpianto, fra relitti di speranze, di amori, di ritorni imperfetti, di sogni, che, impietoso, il mare marcisce e disintegra. Né la “linea fra – acqua e spiaggia -” (I confini del mare) costituisce speranza di un approdo di salvezza. È linea tra vuoto e vuoto, tra il mare del nulla e il “rumore impudico/ di vuoto o di guasti./ Il frastuono dei vivi” (Rotta cieca), che offende i sensi e l’anima, la barbarie degli impulsi, l’assenza d’innocenza, il dolore.
Il mare, nella raccolta poetica di Fortuna Della Porta, intelligentemente introdotta da Gianmario Lucini, diventa metafora del nostro vivere, “luogo” degli eterni interrogativi esistenziali, delle nostre ancestrali paure dell’inconoscibile, della tragicità del nostro essere animali raziocinanti, ma anche immensità cui affidare i nostri più segreti pensieri (come non citare, in merito, la poetessa medievale Maria di Francia!), termine di confronto tra la nostra finitezza e la potenza capricciosa, misteriosa, terrorizzante ed attraente al tempo stesso, di ciò che è infinito.
Eppure tra i decisi accenti di pessimismo, nella poesia di Fortuna Della Porta trovano spazio il desiderio del cielo, il desiderio di respirare la storia, il conforto della natura – “Celeste meraviglia è la trappola dei sensi” (Bonaccia) -, i consolanti pensieri della sera, la felicità dell’incanto e dello stupore abissale – “La costa ogni volta s’incrosta di verde/ e intriga tra spini e ricordi” (Mare amaro) -, l’aspirazione ad un’ancestrale perduta libertà, l’obbligo di sognare: un caicco, che indubbiamente richiama alla memoria il phaselus di Catullo, ormai vecchio e stanco sogna le sue avventurose traversate nella bellezza della natura e del mito e nella storia del “greco mar”.
Ed è proprio di questa contrapposizione che si nutre e si fa bella nei suoi chiaroscuri la poesia di Fortuna Della Porta che controlla guardinga i toni elegiaci ed evita pose e toni melodrammatici, a vantaggio di una modernità di tematiche esistenziali, di essenzialità, rigore e vigore espressivi, di “lemmi solerti e amari/… scavati nella mia carne/ scalpellati sulle fibre nervose con acido cloridrico” (Le acque dell’umanità). E se pure la parola poetica non riesce ad esprimere l’inesprimibile, tuttavia “folgora… dipinge… sgrana… musica le attese di un bimbo” (Acque mute) e se non riesce a “portare” al sollievo i recessi delle pene, diventa carezza, illusione che addolcisce la vita, del poeta in primis.
Né la poesia perde di vigore, né s’interrompe il suo filo conduttore, quando, pur indulgendo ad una certa concettualità, si assume il compito dell’impegno civile, di un’accusa, anche di un’autoaccusa, del sonno occidentale dinanzi alle sofferenze estreme del mondo, o quando si fa canto fermo e deciso del valore delle donne “veraci querce […]” (Mari del mondo), o di Gandhi, di Luther King, di Wangari Maathai, che sognavano e fecero sognare e furono seme di speranza per i diseredati dell’umanità.