Accolgo la seconda opzione nell’interpretare l’ultima creazione di “Tina” come allegoria di vastità e d’acqua in cui l’elemento originario e primigenio gioca il ruolo della continuità espressiva.
Il mare presenta la sua ricorrenza più come dimensione ampia, incommensurabile ma percepibile, che come entità descritta.
L’acqua è il cristallo trasparente in cui si altera il mondo fin nei suoi dettami poetici, che pure riferiti a noti maestri, si condensa nei colori e nel significato simbolico del sangue.
Ricorre il suo riferimento a quanto di più vitale incarnato, spumeggiando con radicata intensità entro i dotti sotterranei della conoscenza sensitiva.
Da subito pulsa ritmico, un sentimento pieno di vita che vuole continuare a vivere anche oltre il limite assegnato.
La rassegnazione esiste in quanto assente, presenza defilata ma aleggiante, polarità di contrasto innominata.
“Ho respirato” scrive l’autrice a sigillo di una delle sue poesie, dopo aver espresso la consapevolezza di essere stata un corpo celeste (“rosa”), tranquillamente cometa, e se ne percepisce il passaggio, finanche il ciclo di ritorno.
Non è il suo cielo quello dell’esistenza?
Tina esprime efficacemente una consapevolezza inafferrabile ma percepibile della caducità, uno spaccato d’essere donna che dichiara e rivendica la sua specificità.
C’è un ciclo che ripresenta se stesso; che si mimetizza al sapore della perdizione e alla crudità della consapevolezza, che smaterializza se stesso come vuoto di cui si chiede l’invenzione.
“Ho vinto tutti i mari per arrivare/ a questo tramonto di distanze”. In due versi è racchiusa un’esistenza, un’evoluzione di cammino in equilibrio sul tramonto dell’istante che precede il regno della notte. Nella sua e l’altrui sera, vivono sfumature crepuscolari che dichiarano la presenza di pensieri e riflessioni indicibili, scritte come in uno specchio, vogliono essere lette all’incontrario.
Ribadisce la sua presenza in un velo di amara consapevolezza, una manifesta citazione del flusso che conduce dalla sorgente al mare, senza mai concedere approdi alla rassegnazione della tristezza. Anzi, permane nei suoi versi una freschezza vitale, propria dell’adolescenza, argine al disfare del tempo, bastione insormontabile dell’inno alla vita anche nei passi in cui sono riconoscibili filosofie leopardiane trasfigurate e ricondotte alle modalità espressive contemporanee.
Quella di Fortuna è una visione che tocca nel profondo, un abissale tormento generato dal disagio dello sguardo volto all’indietro, un’assunzione su di sé della prova, indimostrabile, della saggezza. Quella proposta è dunque una metafora anche se, nella seconda metà dei suoi componimenti non vengono meno proposte di carattere sperimentale di uso dei lemmi, né difettano i moniti rivolti alla nostra coscienza sopita, ad uno sguardo che troppo spesso guarda solo avanti in direzione del vuoto e della paura del domani; scampato alla balena e deposto nella sua circumnavigazione.