Fra tutte le cose del mondo, il poeta sceglie il suo “io”,  lo scandaglia. Si fa scrutatore di sé.   Egli, il creato, cerca la sua ‘materia e forma’  da dentro , e si chiarifica, se non ad altri, certo a se stesso.   Non vi sono orizzonti, né limiti.
“Quando accoccolo il sangue a scrivere rime / mi colgo rabdomante al mio sentire”. Così F. D.P. pre-mette nel porgere il suo ultimo libro, un attacco verbale già indicatore di uno stile. Nel brillare dei ‘Girasoli’ Lepisma, l’intento poetico si illustra già dalla copertina in un dipinto di Vittorio Corcos: seduta su una panchina accanto ai suoi libri (e con petali e foglie caduti attorno nella luce di primo autunno), una ‘Signora della Tradizione’ impone a chi guarda il ‘suo sguardo’ volitivo, come a dire ‘eccomi, questo altro io sono’.  Le convenzioni vengono ribaltate da un atteggiamento di sfida, nel raggio di un intimo sé che promuove dal profondo l’unicità dell’essere.  E si fa ossimoro la semplicità dell’esporsi, contro la complessità del non visibile.
Accanto al deciduo residuale della poesia tramandata – che ha perduto nel gusto moderno la sempreverdità del suo alloro, la sua atmosfera romantica – la scrittura ha acquisito un muoversi mutevole dietro un pensiero imprendibile, mai chiarito.   Mentre trascina da dentro ciò che trova, consapevole della sua chiusura di comunicazione, non dice che per tagli, a bruciapelo.  Alla luce esteriore espone l’oscurità dei ‘Sogni’ (tale è il titolo della tela).
Un rinnovarsi dell’ormai obsoleto inseguimento dello ‘stream of consciousness’, flusso della coscienza, con epigoni d’avanguardia, ha preso la mente dei poeti di oggi come un’ubriacatura, un’ebbrezza, senza la quale non si è più capaci di sentire.   È rimasta “Solo la testa sul lungo esile collo” (Procellosa, v. 9).
“Si sfaldano i lacerti mentali contro l’inevidenza
Danza alla gravità a decrescere la bonaccia del corpo
Derelitti in suburanio e defluviati sensi.” (‘Inconcreto’ vv.19-21)
“Io confesso”.  Veloce il pensiero, la parola si espande come acqua in cerchi concentrici, si complica, dalla ragnatela dei sensi si diversifica a segmenti.
Fra tutte le cose del mondo, il poeta sceglie il suo ‘io’, lo scandaglia. Si fa scrutatore di sé.   Egli, il creato, cerca la sua ‘materia e forma’ da dentro, e si chiarifica, se non ad altri, certo a se stesso.
Non vi sono orizzonti, né limiti.  Acuito il senso della percezione, si dichiara inarrivabile. Dalla matassa magmatica dipana da solo il filo d’uscita del labirinto.
“Scrivo per fare concreta l’attesa
Voglio che sia spessa come una lampada” (‘Incuneata’, vv.1-2)
Forte è il ‘voglio’.
Se quello che il poeta trova dentro di sé sia la soluzione dell’enigma o un abbaglio della lampada, lui non sa.   Cerca, cerca ancora in ciò che seleziona.
“…Poesia senza parole. Piattovuoto vuotocristallo/ Intenzione senza funzione/ Concepisco apoteosi di menteimmagine/ Negazioni microrepellenti/ Marcite/ E dioamanti: parola peregrina.” (‘Dilemma’ vv.2-7).
Per farsi l’immagine che insegue, sega e segmenta la sintassi, s’inventa un lessico personale.  Persegue un sempre pronto spirito di Picasso.  Perché non esiste il momento temporale, né finisce lo spazio nel dominio dell’astratto.
“…immagini capovolte
Il miraggio nell’acqua
Vado vestita di bianco
E una cintura di vie.” (Trasognata, vv. 1-4)
Nel panorama della poesia contemporanea, un generico bisogno d’astratto rischia di farsi frase comune. La parola fluisce in pagine senza senso, voce ammutolita.  “La deformazione prospettica/ Dello specchio ondulato/ Lo specchiarsi del mondo/ E’ la sua nullità” (Necessità, vv. 4-7).
In F.D.P. l’ironia fa da tenuta a guinzaglio della bocca, frena la corsa, soffia a magia sulle articolazioni in moto.  Lei si diverte, inseguita da se stessa.
I versi, non dettati perentoriamente, sono rimessi al gioco del dubbio, sempre in discussione.
“Mastro Geppetto orbicolò gli occhietti
Dal ceppo di un legno
Lazzeruolo” (Mimesi, vv.1-3)
F.D.P. si autocritica scopertamente, con occhio tra scherzoso e spietato:  
“Può darsi che qualcuno mi sbagli poeta/ Su tre anacoluti in croce/ Un neologismo sollevato a Montale/ Un arcaismo necrotizzato/ E però/ Mai ubriaca/ Mai fumata/ – disarmo il resto – / Sbrogliata di mente-cervello/ Consolata dal Numero/”(Ironica,vv. 1-10)
Quando la sua scrittura s’attarda nella calma, trasmette i pregi soporiferi della Natura in cui si riconosce: “Glissa l’estate in ruggine/ Una foglia accartocciata/ Chiude al sole d’agosto un’acquerugiola/ Di progetti incompiuti.  Già sfatto il mare/ Ricama avvisaglie/ Per gli ultimi marinai a cavallo di vaporiere, / Ora che è tempo di ritorni” (‘Nemesi’.  vv. 1-4).
Dalla terza sezione, ‘Languida’, il processo di ripiegamento verso la comunicazione di modello tradizionale porta a un poemetto che è dichiarazione d’amore senza reticenze.  Riscatta tutte le poesie fuggitive.
“Io e te tracciamo la rotta solo per fare qualcosa/ senza guardarci negli occhi: non reggeremmo alla finzione. / Sappiamo dai colori del cielo dell’uragano / che si approssima”.   (“D’amore e di sensi” vv. 114-117).
“Io confesso”, affidato a sette sezioni, più ‘Premessa’ e ‘Congedo’, è un libro denso, di parole e di esistenza.  Può comprendere l’arco di una vita.  Si affida a testi illustratori del titolo (che peraltro investe esplicitamente una sezione intera), con piglio e sincerità.    L’uso del termine dotto, di studio assimilato, “luce vesperale”, si scioglie in verso scattante.  Il parlare quotidiano si accosta a passaggi di lingua straniera.  Una sezione, ‘Vernacola’, scoppiettante di sonorità battagliere, è dedicata a ‘sonetti napoletani’.
Chiude il tutto un testo dedicato alla Parola.  (…Parola, quanto pesi/ e quanto sei leggera… /…come puoi dirmi/ quanto costa un dolore).
Per struttura, articolazione di lessico, stile, “Io confesso” si conforma a una proposta duale, di linguaggio metaforico e di comunicazione lineare:
“E’ lo sceneggiatore che oggi fa fuoco e domani neve” ‘Inconcreto’, v.22)